martedì 14 luglio 2020

Quaresima di un'infermiera in trincea Covid-19 (17 marzo-26 aprile 2020)



Quaranta giorni in quell'inferno dove regnava sofferenza,  paura,  angoscia, dove si correva sempre per affrontare le emergenze, bisognava contenere il continuo aggravarsi delle condizioni di quei poveri martiri del Coronavirus. 

Persone che hanno lasciato le loro abitazioni senza portare nulla con sé, in preda alla fame d’aria venivano  trasportati dai familiari o dalle ambulanze nei pronto soccorso  dove ricevevano le prime cure e rimanevano in attesa dell’esito dei tamponi effettuati che avrebbero decretato  l’infezione o meno da Covid-19.
Poi rimanevano lì in attesa di un posto letto in reparto, in rianimazione o, per i più sfortunati,  in obitorio.

In reparto era un continuo rumore dei flussimetri che erogavano ossigeno e aria all'interno di quei palloni (CPAP) che i malati con la polmonite da Covid indossavano sul capo. Come ci si sente dentro? Vi assicuro che non è una bella sensazione: si seccano gli occhi e la gola, hai la percezione di non respirare bene, ma è   l’unica alternativa per non finire sedato con un tubo in gola.

Sappiamo quando inizia un turno ma non sappiamo quando finisce. Corriamo tra le varie stanze per garantire le terapie e il mantenimento delle funzioni vitali dei malati, nel frattempo  il medico ti rincorre per darti  nuove consegne, variazioni di terapia ed esami da eseguire con urgenza. I poveri malati, costretti a letto, con pazienza  aspettano noi  per essere  aiutati nei loro bisogni. Non siamo capaci di fare i miracoli, ma comunque ci diamo molto da fare perché nessuna richiesta rimanga inesaudita.

Siamo bardati con tutoni, doppie mascherine, visiere, calzari,  tripli guanti, cuffie e cappucci ma non avverto il caldo, gli occhiali mi si appannano ma ci vedo lo stesso, la vescica e l’intestino stanno per esplodere ma li faccio tacere, siamo  tutti uniti, medici e infermieri  per un ideale comune: garantire la massima cura a coloro che avremmo preferito non vedere soffrire o morire così. 

Alla fine del turno sento che il naso fa male ed è ulcerato insieme alle orecchie, la divisa è zuppa di sudore e le mani e i piedi sono macerati, il viso per alcune ore è segnato dalla doppia  mascherina, le gambe e la schiena fanno male. Esco da quel luogo altamente infetto seguendo i protocolli per la svestizione;  mi lavo e mi disinfetto  per paura di portare a casa il virus.

Tornata a casa, saluto da lontano la mia famiglia, niente abbracci, niente baci, anche se mi mancano molto, e subito mi fiondo  direttamente  in doccia e poi a letto per riposare un po’.
Non riesco a rilassarmi e ad abbandonarmi al sonno perché mi vengono in mente tutte le persone che ho assistito, quelle che ho potuto  e quelle che non potuto assecondare nei bisogni perché intenta a gestire insieme agli altri colleghi le urgenze di reparto.  Avrei voluto soffermarmi ad ascoltarli di più, a capire bene cosa avessero bisogno, a dire magari una preghiera insieme, a spiegare l’importanza delle cure salvavita a cui sono sottoposti.

Ma ecco che alla mente ritornano le parole di san Paolo: “Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze…,  nelle difficoltà…,  nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole allora sono forte” (2 Cor 12,10). “Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli” (Rm 12,12)
E’ allora che ritrovo pace, consolazione e mi abbandono alla preghiera, chiedendo a Dio di abbracciarmi e di custodirmi nel riposo perchè le mie membra e il mio spirito possano trovare il vero ristoro. 

La mia casa è per me il luogo dove ritrovo la pace, la mia famiglia è il focolare dell’amore, il silenzio e la preghiera sono il mio cibo quotidiano, la Parola di Dio l’acqua che disseta l’arsura della mia anima. Nei giorni dell’emergenza Covid la mia vita  è accompagnata dalle parole di San Paolo che mi fanno sperare,  pregare e sopportare la tribolazione e danno senso al mio essere e al mio agire. 
Ho toccato con mano per l’ennesima volta nella mia  vita, il mio essere  fragile creatura che se  dovesse appoggiarsi su se stessa sprofonderebbe nell’abisso; ma ancora una volta ho sperimentato che davvero chi confida in Dio non rimane deluso, perché nella debolezza Dio mi ha dato Forza, davanti alle difficoltà, alla paura, all'angoscia mi ha aiutato a non fuggire ma ad affrontarle con quella pace interiore che solo Dio può donare.
Tanti sono i malati che ho assistito, di cui ancora conservo il ricordo, ma l’esperienza vissuta al letto di A. è stata quanto mai  significativa. Ad ogni turno io mi occupavo di lei, le facevo le carezze sulla fronte che la rilassavano, la imboccavo ai pasti perché per me era una soddisfazione vederla mangiare le pappe, quando invece i medici, scettici, avrebbero preferito mandarle  giù un sondino per l’alimentazione.
L’ultima notte di turno in reparto mi ha raggelato: era ormai l’alba ed ero da lei per prelevarle il sangue, dopo tanta fatica a trovare la vena, a causa degli arti edematosi, mi congedo da lei con la solita carezza, mi allontano qualche passo e sento la sua voce pronunciare queste parole (le ho sentite bene): FAMMI BERE! Non l’avevo mai sentita parlare, avevo sempre sentito provenire da lei mugugni e lamenti. Ho posato le provette e sono tornata a dissetarla con un vasetto di acquagel che ha tanto apprezzato. L’ho salutata e sono andata via in lacrime pensando a quelle stesse parole che Gesù aveva detto alla samaritana: DAMMI DA BERE!   

In quel momento ho capito di essermi io abbeverata alla fonte di quell’Acqua che disseta per l’eternità durante quei giorni duri, stando accanto a quelle persone nelle quali si celava Cristo crocifisso, offrendo il mio servizio nella semplicità e nella povertà del mio essere.
Adesso sono ritornata a lavorare nel poliambulatorio, è ripresa la mia vita nella normalità, accanto alla mia famiglia, alla mia comunità; non so identificare se qualcosa in me è cambiato, ma dentro  me sento la pace, la consapevolezza di avere ricevuto tanti doni nella mia vita, nulla mi è stato dovuto ma tutto mi è stato donato dall'Amore. Anche per me adesso è Pasqua! La resurrezione di Gesù  è la certezza di un grande amore che non ci abbandona nel sepolcro e la speranza di una eternità che ci attende!

Francesca Ganci




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