Acclamate a Dio da tutta la terra,
cantate alla gloria del suo nome,
date a Lui splendida lode.
Dite a Dio: “Stupende sono le tue opere”.
Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera.
(dal Salmo 66)
Sono le 14:30 di un giorno qualunque e nel giardino del nostro convento tutto sembra normale: il cinguettio degli uccelli, i rami di ulivo mossi da un lieve vento, il sole che riscalda, tante margheritine e qualche violetta tra l’erba, il silenzio del riposo. Tutto fa pensare ad un ordinario pomeriggio di marzo, in cui la primavera inizia a fare capolino. In realtà, questi giorni di ordinario hanno ben poco: siamo in Quaresima, un tempo straordinario, liturgicamente definito “forte”.
A Roma ci sono straordinarie riunioni del Consiglio dei Ministri, che discute per prendere decisioni su piani straordinari di sicurezza, decreti, ordinanze, eventuali autocertificazioni; in famiglia si gioca, si improvvisano cineforum, si fanno dolci per addolcire l’aria e alleggerire il tempo; gli studenti di tutta Italia seguono lezioni in streaming; industrie tessili e meccaniche diventano, in via straordinaria, produttrici di mascherine e materiale sanitario; ai supermercati non ci sono più le code alle casse ma all'esterno, perché l’ingresso è possibile solo a pochi per volta; il semplice saluto è diventato un’azione straordinaria, da eseguire a determinate distanze di sicurezza…
Anche nella nostra comunità di Loreto, la vita ordinaria è stata travolta dalla straordinarietà: nessun servizio esterno; nessuna visita; in refettorio tavoli non più da 5 o 6 persone ma da 4, per rispettare le distanze; preghiera comunitaria non più in cappella ma in corridoio per necessità di maggiore spazio… Abbracci, carezze, strette di mano? In una comunità in cui la maggior parte delle suore ha più di 70 anni, è difficile non porgere il braccio a chi fa fatica a camminare, non sbucciare un frutto a chi soffre di tremori, non avvicinarsi ad abbracciare o baciare le suore dell’infermeria… Probabilmente questo è il gesto di carità che ci viene chiesto: avere rispetto dell’altra e di me, rispetto che, oggi, passa attraverso la distanza, la mancanza di contatto, che non è assenza né indifferenza.
Quando l’epidemia di Coronavirus è arrivata in Italia, due pensieri mi hanno accompagnata: la solitudine a cui sono costrette le persone infette e la domanda su come io posso agire.
Vivere questa situazione in una comunità grande come Loreto è un grande dono: la nostra casa ha un grande giardino che ci permette di star fuori, pur restando a casa, e tanti spazi in cui potersi ritagliare momenti di solitudine; abbiamo avuto i primi giorni di marzo la possibilità di vivere in casa, quotidianamente, la celebrazione eucaristica, un dono non chiesto né preteso, ma da due settimane anche noi non abbiamo più questa possibilità né ci possiamo comunicare sacramentalmente. La mattina ci ritroviamo insieme alle ore 7,00 per partecipare, vedendola dallo schermo, alla messa celebrata da Papa Francesco e dopo seguono le lodi. La sera, anche le suore che spesso dopo cena andavano a riposare, ci ritroviamo alle 21:00 di fronte ad un computer per pregare, insieme al nostro vescovo, mons. Fabio Dal Cin, il Santo Rosario.
La comunità è costituita da circa 50 suore, molte non più autosufficienti, e questo richiede maggior attenzione e responsabilità da parte di chi è più giovane, per me anche fonte di timore e precarietà. Allo stesso modo mi crea tristezza e paura pensare alle tantissime persone che muoiono o che sono sole, a quelle che ogni giorno si recavano in chiesa non solo per pregare e incontrare Dio ma anche altre persone, a quelle che hanno un’attività commerciale e che devono rimanere chiusi, anche se essa è l’unica fonte di guadagno per la famiglia, a quelle che vivono di una provvidenza che oggi non può più raggiungerle, a quelle che si preparano al matrimonio o alla laurea, a quelle che non hanno potuto celebrare il funerale di un proprio caro, a quelle che stanno sperimentando la precarietà del tempo nell’incertezza del futuro, a quelle che vivono in famiglie in cui la convivenza è difficile… Come ciascuno di loro cerca di reinventare la propria quotidianità, anche in convento si cerca di ricreare il tempo, di valorizzarlo.
Noi giovani in formazione al mattino, dopo la preghiera e la colazione, ci dedichiamo a piccoli servizi all’interno della comunità; il pomeriggio è, invece, un tempo più disteso da dedicare alla preghiera, allo studio, alle relazioni fraterne. La superiora della comunità in questi giorni durante i pasti dice che sembriamo essere aumentate di numero, in effetti le distanze sono aumentate, i contatti sono diminuiti, ma la sensazione che ho, soprattutto durante i momenti di preghiera comune, è proprio quella di essere più vicine, più unite.
Certo non nascondo la difficoltà di vivere i sacramenti in modo stra-ordinario e per questo la grazia che chiedo per me e per ciascun cristiano è proprio quella di vivere con cuore aperto e grato la comunione spirituale e la confessione personale.
Sicuramente vivere qui, oggi, è una grande grazia, che a volte sa di privilegio, ma che mai diventa fonte di indifferenza nei confronti di chi affronta problemi e fatiche maggiori.
Amico stammi vicino quando la mia luce è fioca,
quando il sangue ristagna
e i nervi dolgono e formicolano,
quando il cuore è malato
e girano lente tutte le ruote dell’essere.
Stammi vicino quando il groviglio dei sensi
è torturato da angosce che sopraffanno la Fede,
quando il tempo, folle, sparge d’intorno polvere
e la vita è una Furia che scaglia fiamme.
Stammi vicino quando la mia Fede è inaridita
e gli uomini non sembrano che mosche
sul finire dell’estate,
che depongono le loro uova e pungono e ronzano,
tessono le loro piccole celle e muoiono (A. Tennyson)
Ilaria
Postulante sfma
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